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di Stefania Sanlorenzo

Vorrei parlarvi di Polunin, come del documentario-film su di lui, uscito il 5/6 febbraio 2018 nelle sale: DANCER di Steven Cantor (distribuzione – Wanted).
Non ho guardato critiche, recensioni o commenti vari. Mi sono invece fatta una scaletta su di un foglio e per qualche giorno ho lasciato che le immagini viste mi dicessero qualcosa.
Quello era lo scopo, giusto? Danzare significa “muoversi” in una e più dimensioni traendo la forza solo da se stessi. Inspiro ed espiro. Rilascio e contraggo. Sposto persino lo scheletro e sposto me in verticale, in orizzontale, in aria verso il cielo o a terra.
Non mi danno trampolini per saltare, né tappeti su cui atterrare. Non fili o corde a cui aggrapparmi per star su, su su contro la fisica della gravità. Non mi danno molle, non mi permettono para ginocchio o caschi in testa. Il gesto è primordiale, la danza è un’arte, il balletto dà molte restrizioni a quella danza stessa che manifesta in una notazione coreografica e su di una partitura; di solito con anche un libretto per la storia.

SERGEI POLUNIN è diventato troppo famoso prima che la sua mente potesse comprendere appieno che le straordinarie potenzialità del suo CORPO dovevano essere l’espressione del suo “io” interiore e non di ciò che volevano gli “altri” per lui. Eppure se si bruciano le tappe, non c’è molto da fare se non avere attenzione a non scottarsi e a non inalare fumo. Il fuoco è vivo, forte accecante e toglie il respiro. Brucia l’ossigeno finché ce n’è.

Venendo al documentario, esso ci parla di lui, della sua famiglia, del danzare, del suo corpo, del dolore fisico ed emotivo; di una “crisi” abbastanza normale visto tutto ciò che ha fatto in poco tempo, da solo e contando sulle proprie doti e sulla propria resistenza, quando il mondo era altro: era successo e applausi ovunque e sullo stesso pezzo. Era turbinio di spettacoli tutti uguali che sapeva a memoria. Bastava che gli ricordassero con che pezzo andava in scena quella determinata sera. La memoria corporea di Polunin aveva in sé l’intero repertorio del balletto, mentre la sua mente aveva bisogno di dormire. Riposare. Fermarsi. Se non puoi permettertelo e non riesci a contrastare due necessità vitali, cerchi aiuto fuori e intorno a te. La famiglia si è sfaldata (ragioni economiche, allontanamento. Lontananza fisica reale e non colmabile); eppure era stata il suo motore per cambiare strada (dal suo paesino a Kiev, poi a Londra, poi a Mosca….). La vita era iniziata lì, con sua madre suo padre e le nonne: ora era sperso, certo, ma con amici, giovane, senza vincoli, al centro dell’attenzione… già con questa immagine costruita di bad boy: tatuaggi, farmaci, droga (?), ribellione. Giovane bello divino e umanamente scombussolato.

Normalmente trovo i documentari sulla danza tanto noiosi e non mi stupisco che le persone sentano altrettanto, il che crea un po’ un ‘pasticcio divulgativo’. Nel caso specifico la regia regge discretamente bene nel gioco delle sovrapposizioni, mandando avanti una sorta di trama cronologica lineare. Lo vediamo in sequenze ballate, con il suo berretto di lana calato quasi fin sugli occhi, azzurri chiari, su dei lineamenti delicati, mentre cammina o ci racconta. I capelli si allungano, ribelli, poi li taglia, fino a rasarsi. Simbolicamente.
Ammette i suoi alla presenza di uno spettacolo solo quando è ormai famoso, ora che vuole lasciare, forse solo cambiare, ora che sentendosi solo, ha cominciato a cercare se stesso. Anche i suoi parenti narrano la storia, battute come fili che tengono Sergei avvinto alla realtà, anche se lui conosce l’ebrezza del volo. E non può farne a meno. Magari, decide un giorno, a modo suo, più libero: Take me to Church (video 2015). Coinvolgente, forte, d’impatto, il brano ha le caratteristiche per arrivare a un pubblico più vasto. Eppure è tutto costruito.
Certo Sergei (oggi una trentina d’anni) non copre i tatuaggi, certo non è impomatato come per un balletto, indossa una calzamaglia tinta carne (è sensuale): chiude i salti e i giri come vuole, ma è impostato e il suo volare e atterrare e spiccare di nuovo il volo mutando angolazione e direzione o verso, è quello. Quello che Sergei vuole fare, perché lo sa da sempre.
Più arrivi differenti spettano al bel ballerino ucraino: a 19 anni era già Principal a Londra…. dieci anni dopo diventa (ancora più) famoso. Fa parlare di sé con un controllo diverso e speriamo una giusta predisposizione alla vita, la sua e quella dei suoi affetti.

Polunin – Osipova

Giusta? Intendo giusta per lui, ovvio!
Soprattutto dico a chi voglia accostarsi alla danza, siate consapevoli che è un dono di lusso ma può mostrarsi ovunque, tranne che in una teca di cristallo.
Proprio il 5 febbraio 2018 è mancata a 71 anni la ballerina Elisabetta Terabust, ve ne parlerà Margherita, perché erano amiche… Posso chiudere con una frase legata a lei, (poche parole, perdonatemi, che avevo segnato su di un foglietto):
“Danza, danza su tutto quello che manca …”

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