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di Margherita Mana

Il passato diventa remoto quando scompaiono le persone che hanno popolato il nostro presente. Sembra una frase “acchiappacitrulli”, ma la mia memoria va sfaldandosi e mi rendo conto che avrei bisogno di risentire alcune voci e toccare qualche mano, dare un bacio e stringermi in un abbraccio che alla fine poi, non ho dato.
La vita professionale dei danzatori è difficile, intendo anche la parte degli studi, sono anni di sacrifici e fatiche che non vi racconto perché già li conoscete, come sapete che davvero non vengono mai percepiti come tali da chi li vive. Incontrare persone che ci aiutino a capire come siamo e cosa siamo, è essenziale; prima i maestri poi i direttori di compagnia e/o coreografi. I primi ti formano e ti spiegano chi potresti essere (se lavori costantemente e coscienziosamente), i secondi mettono in luce tutto il tuo potenziale delineando le tue doti e capacità a servizio di un’opera d’arte. Sono entrambe figure necessarie, con le quali si instaura un rapporto particolare. Esso si crea e vive dell’intimità di un linguaggio comune, fatto di una cosa che si pratica e ama profondamente: la danza. Ci si conosce bene guardandosi danzare e ci si rispetta da subito, perché si riconosce l’oggettiva difficoltà di questa pratica.
Questo lungo preambolo mi serve per prendere fiato e scrivere di Elisabetta Terabust. Non avrei voluto farlo, avrei preferito ricordare di doverle dire assolutamente qualcosa e farle una telefonata, come è successo in effetti l’ultima volta che ci siamo sentite, oppure vederla impegnata ad insegnare o presentare la sua biografia.
Vorrei raccontarvi alcune immagini che ho di lei, poche e slegate, mi sembra giusto così.
Alla prima di “Tout Satie” di Roland Petit, la compagnia non è tutta giacche, è un balletto per una piccola distribuzione; il teatro è piccolo, vuoto e antico, ci sono le sbarre piazzate per la lezione in scena e il sipario è ancora aperto sulle poltrone rosse vuote. In nero, arriva la signora Terabust, che è lì in qualità di direttrice ed è quella la sua prima produzione con noi. Si appoggia ad una di quelle sbarre, guarda in platea come se constatasse già la presenza di sagome in controluce, e ci chiede se lo sentiamo. Facce perplesse, narici dilatate, qualche orecchio che tenta di percepire non è chiaro cosa. Stupidi-stupiti, noi. “La sentite no?! Quest’energia! La tensione, una vibrazione che emana una sala che tra poco sarà piena, sentite la bellezza dell’attimo prima che succeda tutto, delle persone che vi guarderanno vivere questo momento, perché si tratta sempre e solo di attimi, alcuni millimetrici momenti!!”
Tutto detto con l’intelligenza di chi ha urgenza di spiegarsi, che un po’ rompe il fiato e dà un altro ritmo alla frase, come se fosse lei, ancora lei, a danzare e concentrarsi per farlo bene. Lei con la brillantina Linetti sul nero corvino, a definire la scriminatura e lo chignon tirato perfettamente, lei con le punte super squadrate, lei una musa di Petit che cito, affinché i ricordi lo sfiorino ancora più da vicino e chiudano il cerchio di questa mia bolla di sapone spazio-temporale.
Ecco, per me questo è l’ esempio semplice e non banale, di trasmissione del mestiere e dell’attitudine allo spettacolo. Perché, se ci pensate bene, è quella spinta lì che in scena si usa, è quella con la quale facciamo i conti dopo nel nostro letto ripensando alla serata, come abbiamo vissuto e quanto abbiamo dato in quel momento. Riuscite a perdonarvi quando avete danzato male? Si impara anche a danzare in modo da non aver rimpianti. Esattamente usando quella energia lì.
La signora Terabust era un tipo spiritoso, non è concepibile una persona che abbia fatto il suo percorso prima come Etoile internazionale, poi come direttrice di grandi compagnie, senza una serissima propensione per l’ironia. Ho nelle orecchie la sua risata e quel modo di mettere una mano sulla spalla, confortante come una cioccolata calda.
Si metteva a posto il foulard in caso di nervosismo “grave”, come gesto di controllo e ricomposizione, oppure il pugno appoggiato alle labbra per riflettere abbassando lo sguardo e aprendo alla vista la linea elegante del collo. Era un’ottima insegnante, con un’idea precisa su come fosse il suo modello di danza e lavorava sodo su quello, senza cadere nella auto-referenzialità, ma semplicemente perpetuando ciò che per lei aveva funzionato, e molto bene. Ha messo in evidenza giovani danzatori, prima in fila nei nostri corpi di ballo, dando loro ruoli che esaltavano le loro potenzialità interpretative e tecniche, spesso lottando con gerarchie obsolete e discutibili. Con la stessa cocciutaggine che abbiamo noi ballerini quando ci mettiamo a lavorare qualcosa che non vuol saperne di essere come noi invece abbiamo deciso che dovrebbe.
Era una sera d’estate, io e due mie colleghe eravamo in vacanza e non l’avremmo rivista a settembre. Con un protocellulare selezionammo il numero:
– Signora , volevamo salutarla..
– Oh ragazze, dove siete?
– In vacanza in Sardegna, Silvia cucina e Marghe è la cambusiera.
– Oh signorebenedetto!!! Vi abbraccio care, ci sentiamo presto.
Ecco vorrei adesso; perché non mi manca la scena, né il danzare, mi mancano le persone che hanno reso questo viaggio degno di essere intrapreso e che mi hanno permesso di arrivare qui. Questa casa è popolata di ricordi evanescenti, così come i protagonisti che si allontanano di spalle.

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